LA NOTTE IN CUI CHIEDIAMO DI NON ESSERE LASCIATI SOLI
Perché uno psicoanalista torna alla notte del Getsemani?
Perché uno psicoanalista sente il bisogno di tornare all’esperienza di Gesù nel Getsemani, provando a «illuminare la scena in tutte le sue pieghe»? «La risposta per me – o, meglio, in me stesso – è chiara», scrive Massimo Recalcati nell’introduzione al suo La notte del Getsemani (Einaudi, 2019): «Perché attraverso questa scena il testo biblico parla radicalmente all’uomo, tocca l’essenziale della sua condizione, della condizione “senza Dio” dell’uomo, la sua fragilità, la sua mancanza, i suoi tormenti. Le ferite dell’abbandono e del tradimento, la ferita dell’ineluttabilità della morte non sono forse le ferite più profonde che un uomo deve sopportare? Non è qui che si manifesta la dimensione più radicale di un “negativo” che nessuna dialettica può riscattare? E la psicoanalisi non si confronta costantemente nella sua pratica e nella sua teoria con questa dimensione tragica e “negativa” della vita?».
La notte della solitudine e dell’abbandono
Nei giorni in cui sperimentiamo acutamente il limite della condizione umana e misuriamo i nostri passi dentro uno spazio ristretto, in un tempo che per alcuni è dolorosamente, più che per altri, tempo di solitudine e forse di desolazione, tornare alla notte in cui Gesù, dopo l’ultima cena e prima di essere arrestato, «appare nella sua più radicale umanità», ci aiuta a guardare dentro noi stessi.
Il libro nasce da una conferenza (La lezione del Getsemani) tenuta il 25 febbraio 2017 presso la Comunità di Bose (Piemonte, provincia di Biella: una comunità ecumenica fondata da fratel Enzo Bianchi) e dall’Autore è dedicato appunto alle sue sorelle e ai suoi fratelli del Monastero di Bose.
Le pagine di Recalcati, noto psicoanalista, docente, saggista, autore di programmi televisivi, collaboratore di Repubblica, ci conducono dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme, in cui una folla lo accoglie al grido di “osanna” (la «gloria del Messia», l’evento che la liturgia cristiano-cattolica ricorda nella “domenica delle palme”), alla notte della solitudine e dell’abbandono.
I brevi capitoli ci fanno rivivere le tappe degli ultimi giorni della vita di Gesù, prima dell’arresto e della crocifissione, perché «ancora più della crocifissione» quella notte «parla della finitezza vulnerabile della vita del Cristo, parla di noi, della nostra condizione umana». C’è, nel racconto del Getsemani, la «pesantezza di una notte che non finisce mai, la solitudine inerme e smarrita dell’esistenza che vive l’esperienza del tradimento e dell’abbandono. Questa notte non è la notte di Dio, ma la notte dell’uomo; in essa si consuma la vera passione di Cristo: Dio si ritira nel silenzio abissale del cielo non risparmiando all’unico suo figlio prediletto l’esperienza traumatica della caduta e dell’assoluto abbandono».
È possibile una vita nuova?
C’è una colpa dei sacerdoti che, mentre il Cristo entra a Gerusalemme, tramano per ucciderlo. È «un punto chiave dell’esperienza di Gesù: la potenza della parola animata dalla fede tende a urtare contro la sua istituzionalizzazione». E «la colpa dei sacerdoti del tempio è quella di essere l’immagine di una fede che ha dimenticato se stessa», di avere interpretato l’eredità della Legge «solo come continuità, come replica formale, come ripetizione rituale dello Stesso schiacciandola sulla mera conservazione del passato»: l’eredità autentica della Legge – l’eredità di Abramo, di Isacco e Giacobbe – «implica piuttosto un movimento in avanti che punta a dare compimento alla Legge senza ridurla a un corpo morto».
Il testo di Recalcati, un’analisi che si snoda sulla trama del racconto evangelico, ci mostra un Gesù che sperimenta come la verità della sua predicazione consista nella testimonianza che incarna il Verbo. Ma è possibile una Legge che non sia un peso, un’obbedienza masochistica? Una vita nuova che non sia dominata dalla paura della Legge? «La decisione di Gesù nel Getsemani non è quella di sacrificare la propria vita sull’altare cupo della Legge, ma di offrire, di donare la propria vita, di restare fedele al proprio desiderio. Si tratta di un assoluto gesto di libertà che trova solo in se stesso il suo fondamento. Ogni atto di amore, se è davvero tale, è sempre assoluto perché trova la sua soddisfazione solo nel compimento di se stesso e non in un tornaconto (…). Nella decisione di Gesù di andare sino in fondo, di portare a compimento il proprio destino, non si deve scorgere una rinuncia sacrificale di se stesso, quanto la sua piena realizzazione perché, come egli dice, “Nessuno me la toglie [la vita]: io la do da me stesso” (Gv 10, 18)».
Tre esperienze radicali
Recalcati ci fa ripercorrere le tre esperienze radicali della notte del Getsemani: tradimento, angoscia, solitudine e preghiera. Il traditore non è fuori di noi, ma è uno di noi, è dentro di noi. E se il tradimento di Giuda è tradimento “politico” che nasce forse da un’incomprensione di fondo delle scelte di Gesù e che non si apre all’amore perché l’Iscariota si suicida, si chiude alla vita, le lacrime di Pietro costituiscono invece un fondamento nuovo dell’amore.
L’Autore ci porta nel cuore del tormento di Gesù (e di tutti gli esseri umani) di fronte alla morte, quando si sperimenta l’assoluto abbandono.
Due sono le preghiere dell’uomo di Nazareth. La prima è la supplica al Padre, al Dio biblico la cui legge è l’amore e dunque l’eccezione alla Legge, di risparmiargli quel calice, una supplica alla quale la risposta è il silenzio di Dio.
La seconda preghiera è la consegna, un gesto che «libera la Legge dall’ombra mortifera del sacrificio», in cui «Gesù capovolge il rapporto con la Legge: assume la Legge come verità del proprio desiderio senza più sottoporsi alla violenza della legge». Gesù si affida all’Altro. «Questo è forse l’insegnamento più alto che scaturisce dalla notte del Getsemani. La seconda preghiera di Gesù è l’esito di un disarmo assoluto. L’Io si piega a una alterità che lo supera, accoglie la Legge del desiderio come destino». «Consegnare la propria vita al proprio desiderio non significa solo emancipare la Legge dal dover-essere con sacrificio del proprio essere, ma anche accogliere l’assenza di Dio, l’ateismo come condizione di fatto dell’uomo (…). Significa cogliere che nella forma umana della vita l’essere consegnato all’Altro è una struttura ontologica fondamentale (…) La fede più radicale non sorge dalla presenza ma dall’assenza di Dio. Per questo Bonhoeffer può scrivere che chi è “senza Dio” è più vicino a Dio. L’ateo che dubita, che fa esperienza radicale della solitudine, assomiglia di più al Gesù del Getsemani che non il credente che non conosce il dramma del dubbio».
L’esperienza più profonda della preghiera
«L’insegnamento del Getsemani mostra che essere senza Dio significa essere più vicini a Dio e che l’esperienza dell’assenza di Dio rende, paradossalmente, Dio più vicino all’uomo. Ma questa vicinanza non è semplicemente consolatoria. In essa troviamo piuttosto l’esperienza più profonda della preghiera, (…) un atto di disarmo, di consegna, di offerta senza condizioni al di là dell’Io. “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà”, conclude il suo travaglio Gesù. Sicché l’Io cede, indietreggia, si affida all’Altro sebbene l’Altro – ed è questa la prova ultima – non risponda».
Il libro di Recalcati scava in profondità e valeva la pena di segnalarlo in questi giorni, tra la “domenica delle palme” e la notte del Getsemani, giorni di passione per un’umanità in crisi e smarrita, in una notte in cui molti, come Gesù (mentre i discepoli si addormentano), chiedono di non essere lasciati soli.